Decisione sul ricorso in appello n. 189/88 R.G. proposto dal Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri della funzione pubblica e della sanità, rappresentati e difesi dall’avvocatura Generale dello Stato di Roma, via dei Portoghesi, n. 12 domiciliataria "ex legge".
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DECISIONE
sul ricorso in appello n. 189/88 R.G. proposto dal Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri della funzione pubblica e della sanità, rappresentati e difesi dall’avvocatura Generale dello Stato di Roma, via dei Portoghesi, n. 12 domiciliataria "ex legge";
CONTRO
– il Sindacato nazionale biologi liberi professionisti – SNABILP, rappresentato e difeso dall’avv. Bartolomeo della Morte ed elettivamente domiciliato presso la Segreteria del Consiglio di Stato;
– Landi Ernesto e Tanucci Nannini Carlo, non costituiti;
E NEI CONFRONTI
– dell’Ordine nazionale dei biologi, rappresentato e difeso dall’avv. Giuseppe Barone ed elettivamente domiciliato in Roma alla Via Principessa Clotilde, n. 2, presso l’avv. Angelo Clarizia;
PER L’ANNULLAMENTO
della sentenza 9.12.1986 n. 2224 del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio – I Sezione – resa "inter partes";
DIRITTO
1. – L’appello è parzialmente fondato.
Con il primo motivo di gravame si sostiene la legittimità dell’art. 12 del D.P.C.M. 10 febbraio 1984 nella parte in cui pone limitazioni all’accettazione di campioni provenienti da altri laboratori od operatori sanitari, dovendosi escludere la ritenuta discriminazione delle strutture private rispetto a quelle pubbliche.
La censura è fondata.
L’ultimo comma dell’art. 12 del decreto impugnato vieta ai laboratori privati di accettare campioni provenienti da altri laboratori o da altri operatori sanitari (salvo il prelievo domiciliare). A sua volta il precedente secondo comma subordina ad apposita autorizzazione l’istituzione di punti di prelievo dei campioni, ove ricorrano determinate condizioni e cautele. Dette disposizioni appaiono ispirate all’esigenza di una corretta organizzazione, funzionalità ed efficienza dei laboratori. Esse tendono ad evitare, anche nell’interesse dei laboratori stessi, il verificarsi di interferenze negative sui risultati in relazione al trasporto e alla conservazione dei campioni; che taluni laboratori accettino analisi che per quantità o qualità non siano in grado di effettuare; e che altri laboratori si trasformino in punti di prelievo non autorizzati, eludendo il disposto del cit. secondo comma dell’art. 12. Deve quindi escludersi qualsiasi intento discriminatorio nei confronti dei laboratori privati.
Per altro verso non appare congruente il riferimento alle strutture pubbliche, non trattandosi di entità omogenee e, quindi, confrontabili. Pur concorrendo le strutture private con quelle pubbliche nell’assicurare le prestazioni sanitarie, ben diverse sono la disciplina, l’organizzazione e il ruolo delle strutture pubbliche, sulle quali grava in via prioritaria l’obbligo dell’assistenza sanitaria, sicché non deve necessariamente rinvenirsi a carico di queste ultime un analogo divieto. Peraltro, l’art. 25 ottavo comma legge n. 833 del 1978 prevede che, quando la struttura pubblica non sia in grado di soddisfare la richiesta di prestazione entro tre giorni, l’utente deve essere autorizzato ad accedere alle strutture private. Dunque, anche per le strutture pubbliche esiste un limite all’accettazione delle richieste, rapportato alla capacità produttiva; e non v’è, pertanto, ragione di escludere un analogo limite per i laboratori privati.
2. – Con il secondo motivo si sostiene che legittimamente l’art. 8 n. 1 decreto cit. impone ai biologi il requisito della specializzazione o della libera docenza in branca attinente all’attività di laboratorio, poiché tale requisito è richiesto non per l’esercizio dell’attività di analisi ma per quella diversa di direzione del laboratorio.
La tesi non può essere condivisa perché l’art. 3 punto 9) L. 24 maggio 1967 n. 396, recante l’ordinamento della professione di biologo, abilita il biologo a svolgere l’attività professionale di analista col solo possesso della laurea, dell’abilitazione professionale e della conseguente iscrizione all’albo. La previsione della specializzazione o della libera docenza concreta l’imposizione di un ulteriore requisito per l’esercizio dell’attività professionale in contrasto con una previsione legislativa e quindi con una fonte normativa sovraordinata; il che non è consentito fare con un provvedimento amministrativo, sia pure a carattere generale.
Né può condividersi la sottile distinzione prospettata dall’Amministrazione tra l’attività di analista e la direzione di un laboratorio di analisi, essendo queste due aspetti dell’attività professionale di analista.
3. – Con il terzo motivo si sostiene la legittimità dell’art. 8 cit. nella parte in cui consente la direzione del laboratorio al biologo solo se laureato in scienze biologiche (con ciò escludendone gli iscritti all’albo dei biologi, ma laureati in scienze naturali, agraria, veterinaria, chimica, farmacia, medicina), poiché il requisito concerne la sola direzione del laboratorio.
Anche tale censura non può essere condivisa. L’art. 48 legge n. 396 del 1967, nel testo modificato dalla L. 10 maggio 1970 n. 274, ha previsto, in via transitoria, che potevano essere iscritti nell’albo dei biologi i suindicati laureati purché avessero effettivamente esercitato per almeno cinque anni l’attività professionale di biologo. Escludere tali soggetti dalla direzione di un laboratorio appare illegittimo per le stesse ragioni innanzi esposte in relazione al secondo motivo.
4. – Fondato è invece il quarto ed ultimo motivo di gravame con cui si censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto illegittima la previsione di sanzioni (art. 18 terzo comma: sospensione dell’attività e chiusura del laboratorio) nel caso di inosservanza della normativa emanata con il decreto impugnato. Il Tribunale è pervenuto alla censurata decisione sul rilievo che un provvedimento amministrativo, sia pure a carattere generale, non possa porsi in contrasto o modificare specifiche disposizioni legislative, quali gli artt. 193 e ss. T.U. 27 luglio 1934 n. 1265, che prevedono la disciplina e le sanzioni in materia di esercizio di professioni sanitarie. Tale conclusione, pur esatta in termini generali, non può tuttavia essere condivisa con riferimento allo specifico caso in esame.
Il D.M. 10 febbraio 1984 ha determinato, ai sensi degli artt. 25 dodicesimo comma e 5 legge n. 833 del 1978, i nuovi requisiti minimi di strutturazione, dotazione strumentale e qualificazione del personale dei presidi di diagnostica strumentale e di laboratorio. A detti nuovi requisiti devono adeguarsi i laboratori privati già esistenti ed in precedenza autorizzati nei termini all’uopo fissati dall’art. 18 D.M. stesso. Ora va innanzitutto osservato che la sospensione e la successiva revoca dell’autorizzazione, prevista dall’art. 18 terzo comma nel caso di mancato adeguamento nei termini previsti, non concretano delle sanzioni in senso tecnico ma costituiscono piuttosto la normale e vincolata conseguenza del mancato possesso da parte del laboratorio dei requisiti minimi per la conferma dell’autorizzazione. Per le stesse ragioni un laboratorio di nuova istituzione non potrebbe ottenere la prescritta autorizzazione in mancanza di quei requisiti minimi. Non si pone quindi una questione di nuove e diverse sanzioni previste da un provvedimento amministrativo, essendovi solo l’esplicitazione degli ordinari poteri di controllo, vigilanza e autotutela spettanti all’Amministrazione preposta al settore.
Peraltro la previsione contenuta nell’art. 12 D.M. citato non è in contrasto con il disposto dell’art. 193 T.U. n. 1265 del 1934, che già prevede la necessità dell’autorizzazione per aprire o mantenere in esercizio ambulatori e consimili istituti di cura e assistenza sanitaria e l’ordine di chiusura nel caso di mancanza di autorizzazione o di inosservanza delle prescrizioni in questa contenute o di altre irregolarità (misura questa più propriamente sanzionatoria, cui non può non far seguito, secondo i principi generali, la revoca dell’autorizzazione in caso di ulteriore inosservanza od irregolarità). L’art. 12 D.M. citato, in relazione alla fase di transizione dal precedente al nuovo regime, dispone anzi un regime di maggiore favore, del quale non possono certo dolersi gli interessati, poiché, allo scadere dei termini per l’adeguamento ai requisiti minimi richiesti, non si fà luogo senz’altro all’immediata chiusura del laboratorio ma alla sospensione dell’attività e solo in caso di mancato adeguamento negli ulteriori sei mesi da essa si procede alla revoca dell’autorizzazione. E dipende esclusivamente dall’interessato far cessare la sospensione in qualsiasi momento ed evitare la revoca.
Per le su esposte ragioni l’appello va parzialmente accolto.
L’impugnata sentenza va riformata nella parte in cui annulla l’art. 12 ultimo comma (divieto di accettazione di campioni provenienti da altri laboratori ed operatori sanitari) e l’art. 18 terzo comma (revoca dell’autorizzazione) del D.P.C.M. 10 febbraio 1984. Va confermata per il resto.
Ricorrono giusti motivi per compensare interamente tra le parti le spese e competenze del giudizio.
Il testo di questo provvedimento non riveste carattere di ufficialità e non è sostitutivo in alcun modo della pubblicazione ufficiale cartacea.
La consultazione e’ gratuita.
Fonte: Istituto poligrafico e Zecca dello Stato
Decisione n. 528/91