Negli ultimi 30 anni la ricerca nell’ambito della biologia della riproduzione umana ha permesso di mettere a punto una serie di procedure finalizzate al superamento dei problemi correlati all’infertilità di coppia. Queste vanno dalla semplice preparazione e selezione degli spermatozoi da inserire in utero a procedure più complesse che prevedono il trattamento dei gameti maschili e femminili al fine di ottenere la fecondazione “in vitro” e la successiva formazione e trasferimento in utero dell’embrione. I primi tentativi di fecondazione in vitro – IVF (In Vitro Fertilization) – nelle specie animali risalgono agli anni ’50-’60. Fu il dott. Min Chueh Chang ad arrivare al successo nel 1959 utilizzando spermatozoi e ovociti di coniglio in provetta.
Tuttavia, bisognerà aspettare gli anni ’70 per ottenere i primi risultati nella specie umana. Fu il lavoro di due ricercatori inglesi, il ginecologo Patrick Steptoe e il biologo Robert G. Edwards, che portò al successo queste tecniche con la nascita della prima bambina, avvenuta il 25 luglio 1978. Da allora in tutto il mondo sono sorti numerosi gruppi di studio che hanno portato rapidamente l’IVF a essere considerata non più una procedura sperimentale, ma una cura per l’infertilità di coppia. Nel corso degli anni tutti i ricercatori si sono concentrati sul miglioramento delle metodiche al fine di ottenere sempre maggiori percentuali di successo in termini di gravidanze e di bambini sani, ma anche per estendere l’applicazione di tutte queste tecniche di PA (Procreazione Assistita) a un maggior numero di casi di infertilità. In particolare, grandi progressi si sono ottenuti nel campo dell’infertilità maschile con la messa a punto della ICSI (Intracytoplasmatic Sperm Injection), ossia l’iniezione di un singolo spermatozoo all’interno del citoplasma della cellula uovo. Questa innovazione ha consentito la risoluzione di molti dei problemi di infertilità causati da fattore maschile severo. Negli ultimi anni poi, il perfezionarsi delle procedure di screening genetico ha consentito l’applicazione di sistemi sempre più sofisticati per l’individuazione sia dei disordini genetici alla base delle malattie trasmissibili note, che delle aneuploidie dei gameti e degli embrioni.
Lo sviluppo di queste biotecnologie è proseguito di pari passo con l’evoluzione della figura dell’embriologo clinico, un biologo che svolge un ruolo primario nella procreazione assistita e che possiede specifiche competenze nell’ambito della biologia della riproduzione umana, con abilità tecniche utili all’esecuzione delle metodiche richieste dalle esigenze cliniche delle coppie coinvolte. L’embriologo è il professionista di riferimento al quale le coppie infertili possono richiedere tutte le informazioni che riguardano il processo di recupero delle cellule (uovo e spermatozoo), il loro trattamento e la loro unione al fine di generare gli embrioni utili per il trasferimento. Nel laboratorio di embriologia, vero cuore del Centro di PA, i gameti e gli embrioni sono custoditi, valutati, coltivati e, se necessario, crioconservati. Tutte queste procedure vengono attuate in un ambiente protetto e rigorosamente regolamentato, di cui il garante è proprio l’embriologo.
Il problema maggiore che si pone nel nostro paese, per quanto attiene la figura professionale dell’embriologo clinico, è il percorso formativo professionalizzante, soprattutto nell’ambito della sanità pubblica. Infatti, non essendoci ancora in Italia una specializzazione in embriologia clinica, il training scientifico e pratico di questi professionisti è affidato alla frequentazione di corsi di perfezionamento o master universitari. Il conseguimento di questi titoli, se da un lato permette una corretta formazione in embriologia clinica, non è sufficiente per l’inserimento nelle strutture ospedaliere, dove i professionisti devono obbligatoriamente possedere un titolo di specializzazione. Questo comporta che, a oggi, tutti i centri pubblici di procreazione assistita in Italia utilizzino per il loro funzionamento embriologi clinici a contratto o siano costretti ad assumere professionisti con specializzazioni in aree diverse. Il tutto si riflette nella carenza cronica di embriologi clinici che si evidenzia nei centri di procreazione assistita in Italia.
Negli ultimi anni il Consiglio Universitario Nazionale (CUN) ha definito l’embriologo clinico come “il laureato magistrale in Biologia (LM-6) e Lauree equiparate che possa dimostrare attraverso certificazioni adeguate un training di almeno due anni in un Laboratorio di PMA.”
In una sua nota, inoltre, lo stesso auspicava che nell’ambito della Scuola di Specializzazione in Patologia Clinica si potessero delineare adeguati percorsi formativi teorico-pratici che consentissero direttamente l’accesso a tale professione, o Master post specialistici ad hoc. Ciò che il CUN si auspica rappresenta in realtà l’obiettivo principale sul quale gli Embriologi Clinici italiani lavorano da anni: la possibilità di elaborare percorsi professionali mirati nell’ambito delle Scuole di Specializzazione, ma soprattutto far si che i Master di I e II livello già attivi presso alcuni Atenei Italiani possano essere considerati titoli validi per l’accesso alle strutture pubbliche.
A cura della Commissione permanente di studio dell’ONB “Procreazione assistita”
Coordinatore: Riccardo Talevi
Componenti: Paolo Artini, Rosanna Ciriminna, Lucia De Santis, Annalisa Fregola, Adina Massacesi
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