Pubblichiamo, di seguito, l’intervista che il presidente dell’Onb, Vincenzo D’Anna ha rilasciato al quotidiano online Spraynews.it.
Vincenzo D’Anna, ex parlamentare e attuale presidente dell’Ordine dei biologi è uomo cui piace sfidare i venti contrari o, come dice lui, «i luoghi comuni». Lo scorso anno, per dire, fu protagonista di una aspra polemica sui vaccini, «accusato perfino», sorride mentre lo racconta a Spraynews, di essere un no vax. «Ma quale no vax! So benissimo l’importanza dei vaccini. Solo mi sono permesso di esprimere dubbi, che è peraltro una delle condizioni della ricerca scientifica, e di chiedere maggiori accertamenti diagnostici sugli eventi avversi provocati dai vaccini. I pasdaran a prescindere, quelli non mancano mai in questo nostro paese, si scagliarono contro di me perché l’Ordine dei biologi aveva finanziato una ricerca basata sul metodo dell’analisi genomica e chimica per accertare l’effettiva composizione dei vaccini. Un accertamento che riguardava la sicurezza dei vaccini e non certo la loro efficacia sulla quale nessuno intende dubitare. Eppure ne nacque uno scandalo». Dalle ricerche emerse che una partita di vaccini per la rosolia non aveva l’antigene per il virus della malattia, o, ancora, la presenza in alcuni lotti di decine di sostanze improprie che non ci dovrebbero proprio essere, come nanoparticelle, diserbanti, inquinanti vari o antibiotici. D’Anna chiese all’Aifa di intervenire. La risposta è poi arrivata presidente? «Che vuole che le dica, sto ancora aspettando. Nessuno ha esibito la documentazione per dire che la nostra ricerca aveva ragione o torto. Nulla».
D’Anna è un osso duro. Lo era a palazzo Madama, dove il senatore è stato anche membro della Commissione permanente Igiene e Sanità, lo è sulla tolda di comando dell’ente che rappresenta i biologi italiani. Organizza convegni, esplora le nuove frontiere della biologia. E soprattutto è allergico all’autoreferenzialità di certa scienza. D’Anna è pronto a tirare fuori dal cassetto una nuova iniziativa. Si tratta niente di meno della realizzazione di un Piano per la Protezione civile dell’ambiente. Una “task force” che dal più piccolo Comune fino alle grandi aree metropolitane faccia rete per la tutela della salute e dell’ambiente. Una “task force” da mettere in piedi quanto prima, perché, questo il grido d’allarme di D’Anna, «la situazione è seria». Lui la sintetizza con una parola complicata, di quella da dizionario: modificazione epigenetica.
Di cosa si tratta?
«Parliamo di una modificazione ereditabile che non altera la sequenza del Dna ma l’espressione dei geni. Ora senza entrare nei dettagli scientifici che non interessano i lettori quello che mi preme sottolineare è che i cambiamenti epigenetici rispondono a diversi stimoli, inclusi i fattori ambientali. Insomma, noi siamo alla prese con una bomba su cui occorre che la politica e le istituzioni intervengano al più presto: attraverso il liquido seminale si trasmette infatti alla popolazione giovanile una tara silenziosa e pericolosa. Noi come Ordine dei Biologi faremo un convegno agli inizi di ottobre e subito dopo terremo una conferenza stampa per presentare un lavoro approfondito sulla trasmissibilità di questi fattori epigenetici. Che, lo ripeto, discendono in primo luogo dall’inquinamento ambientale. La modificazione epigenetica blocca determinati geni che proteggono il nostro organismo dalle intossicazioni e attivano, al contrario, dei geni oncogeni che stimolano l’insorgenza del cancro. Non voglio fare allarmismo ma nemmeno nascondere la testa sotto la sabbia. Perché se non è importante difendersi da un pericolo subdolo quale la tara ereditaria mi dica lei quale priorità può esserci sotto il profilo sanitario e ambientale!».
Nasce da qui l’idea della Protezione civile dell’ambiente?
«Nasce da questa grossissima questione, certo, e anche da tante altre che, pur meno allarmanti, meritano in ogni caso una attenzione particolare. Il biologo, per i larghi ambito di intervento professionale, può infatti soddisfare molte delle esigenze oggi indispensabili per la buona conduzione di un ente pubblico. A partire dalla protezione dell’ambiente in senso lato, alla raccolta e smaltimento dei rifiuti urbani, alle valutazioni di impatto ambientale, alla redazione di un piano alimentare per i bambini delle scuole, all’individuazione delle eventuali fonti di inquinamento dell’acqua, del suolo e dell’aria. Il biologo è poliedrico e la sua attività può essere impiegata per molte di queste mansioni. Con indubbi benefici per l’ente sicuramente ma soprattutto con grandi benefici per la collettività, perché avremmo sul territorio una rete attiva di primo intervento, così come capita per la Protezione civile. Insomma, l’obiettivo che ci poniamo con la nostra proposta è quello di prevedere e prevenire i danni prima che questi si incancreniscano e l’inquinamento assuma dimensioni massicce. I biologi per la loro formazione sono le persone più indicate per occuparsi dell’ecotossicologia, cioè quella branca della tossicologia che valuta gli effetti tossici degli agenti chimici e fisici sugli organismi viventi e sugli ecosistemi naturali. Ma per avere chance di successo contro i danni da inquinamento occorre una struttura reticolare che dal piccolo comune salga fino al livello nazionale. Noi questa proposta ad ottobre la porteremo all’attenzione del ministro dell’Ambiente e della Salute e chiederemo al presidente del Consiglio di valutarla con l’attenzione che merita».
Presidente, immagino già che qualcuno le dirà: “ottima idea, ma i soldi”? Quanti biologi servirebbero?
«Uno per ogni Comune. Ma attenzione, i piccoli comuni potrebbero benissimo associarsi per assumere un biologo che copra il territorio di più amministrazioni. Una grande città, d’altro canto, necessiterebbe di un numero sostanzioso di biologi, 5, 10, 15, dipende dalla popolazione e dall’ampiezza del territorio. I costi, dice lei? A spanne qualche decina di milioni di euro. Ma sarebbe in ogni caso una piccola spesa se pensiamo alla salute delle persone e alla tutela dell’ambiente. Si tratta di fare delle scelte. Io sono convinto che è meglio prevenire che curare. Per diversi motivi, la qualità della vita delle persone innanzitutto, ma anche perché i costi sociali e sanitari di alcune malattie sono incommensurabilmente alti. Lo sa quanto costa un ricovero in una struttura ospedaliera? 1.300 euro al giorno! E in molti casi ad evitarlo basterebbe una maggiore attenzione a monte. Ripeto, quello che è importante è costituire questo nucleo di protezione ambientale che agisca in coordinamento con la protezione civile e quindi sia in grado di intervenire rapidamente e di mettere in atto i primi adempimenti per evitare i danni da inquinamento».
Un paese che ha conosciuto la devastazione della Terra dei fiochi dovrebbe essere sensibile alla questione, non crede?
«Ha assolutamente ragione. Con una avvertenza però. La Campania, con le sue discariche abusive e i roghi tossici, non è un unicum, al più rappresenta la punta di un iceberg. Dovremmo più correttamente parlare di terre dei fuochi: quelle che hanno un elevato impatto di inquinamento ambientale sono circa 30. Lo Stivale intero è avvelenato da rifiuti tossici e molti si trovano al Nord, in Lombardia come in Veneto. Basti ricordare l’epidemia di legionella che ha colpito con violenza la provincia di Brescia, e che ha causato 7 morti e mille contagiati, per capire che il fenomeno è vasto e dalle molteplici cause».
Su molte emergenze si è preferito mettere la sordina…
«Si, è vero. Ma la sordina la si può anche levare. L’opinione pubblica ha bisogno di risposte le più semplici e le più concrete possibile».
Un ultima cosa presidente. Quando parliamo di rischi per la salute tutti pensiamo ai bambini. A quello che mangiano, a quello che respirano.
«I bambini sono i più esposti, perché ricevano dai genitori le modifiche genetiche e quindi le tare ereditarie di cui parlavo prima. Una alimentazione sana è fondamentale. Per tutti e a maggior ragione per i più piccoli. Le faccio un esempio. Nella Terra dei fuochi sono stati individuate delle enclave di ultracentenari proprio nelle zone più inquinate. Queste persone anziane vivono in comunità dove si consumano grani autoctoni ricchi di selenio, un elemento che aiuta ad espellere le sostanze nocive. Questo per dirle che la natura ci aiuta. Ma anche noi dobbiamo darci da fare».
di Giampiero Cazzato