Roma, 4 settembre 2019 (Agonb) – Secondo il Ministero della Salute, si stima che in Italia le persone affette da Parkinson siano circa 230.000. La prevalenza della malattia è pari all’1-2% della popolazione sopra i 60 anni e al 3-5% della popolazione sopra gli 85 anni.
Su questa patologia si concentrano significativi sforzi della ricerca scientifica. Tra gli ultimi studi che potrebbero avere sviluppi interessanti nella lotta alla malattia, ce n’è uno realizzato dall’Università di Roma “Tor Vergata”, con la Fondazione Santa Lucia Irccs di Roma e con l’Università Campus Bio-Medico di Roma, pubblicato sulla rivista Nature Communications.
Lo sviluppo della malattia, spiegano i ricercatori, potrebbe essere rallentato grazie alle Resolvine, molecole prodotte dal nostro organismo per spegnere processi infiammatori e riparare i tessuti danneggiati da questi processi. Da tempo la ricerca sta puntando i riflettori sui possibili rapporti tra stati infiammatori e malattie neurodegenerative. In questo nuovo studio è stato prima rilevato un ridotto livello di una specifica Resolvina, la Resolvina D1, in pazienti affetti dalla patologia e si è, quindi, intervenuti in modo sperimentale su modelli di laboratorio per riequilibrare la presenza di questa importante molecola nell’organismo. Il gruppo di ricerca è così riuscito a rallentare il processo neurodegenerativo che caratterizza la malattia di Parkinson.
«Lo studio – spiega Nicola Mercuri, Ordinario di Neurologia dell’Università di Roma Tor Vergata e coordinatore dello studio – ci ha permesso di dimostrare che la proteina alfa sinucleina, nota per il ruolo chiave nello sviluppo della malattia di Parkinson, causa molto precocemente un cattivo funzionamento dei neuroni dopaminergici. Le conseguenze sono disturbi motori e cognitivi, ma anche un’aumentata neuroinfiammazione associata a ridotti livelli di Resolvina D1 che abbiamo osservato nel sangue e nel liquor cefalorachidiano di pazienti affetti da Parkinson, in cura presso il Policlinico di Tor Vergata».
Partendo da questa osservazione, i ricercatori hanno somministrato Resolvina D1 in modelli di laboratorio e dopo due mesi di trattamento hanno potuto osservare una progressiva riduzione dello stato infiammatorio e del processo degenerativo che nella malattia di Parkinson provoca la nota distruzione dei neuroni deputati alla produzione di dopamina. Con essi si sono ridotti anche i sintomi motori e comportamentali caratteristici della malattia.
«Ad oggi – sottolinea Marcello D’Amelio, Ordinario di Fisiologia Umana del Campus Bio-Medico di Roma e responsabile del laboratorio di Neuroscienze molecolari dell’Irccs Santa Lucia – la diagnosi di malattia di Parkinson avviene tardivamente, quando più della metà dei neuroni dopaminergici è già andata distrutta e non abbiamo terapie per rigenerarli. Essere riusciti a intervenire in laboratorio su un processo infiammatorio collegato a questa neurodegenerazione prima che i neuroni dopaminergici siano andati persi per sempre, fa ben sperare per future sperimentazioni cliniche in grado di rallentare o auspicabilmente arrestare lo sviluppo della malattia».
Dunque, «è ragionevole ipotizzare che la presenza ridotta di Resolvine in pazienti affetti da Parkinson possa in futuro servire anche come marcatore precoce della malattia», conclude Valerio Chiurchiù, ricercatore del Campus Bio-Medico e dell’Irccs Santa Lucia. (Agonb) Ffr 11:00.