Dalla pagina Facebook di Luigi Sanità di Toppi, professore ordinario di Botanica generale presso il Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa.
Da molti anni si parla di interazioni tra contaminazione ambientale ed incidenza di malattie acute e croniche. Fece scalpore già svariati anni fa, e continua ad avere meritatamente massima attualità, l’articolo di Cesare Cislaghi e Pier Luigi Nimis, pubblicato nel 1997 prestigiosissima rivista scientifica Nature (link: https://www.nature.com/articles/387463a0.pdf), circa la stupefacente correlazione tra mortalità per tumore polmonare nella popolazione “giovane” (al di sotto dei 55 anni) ed il livello di inquinamento atmosferico. L’indagine sperimentale pluriennale fu effettuata nell’intera Regione Veneto (ca. 4 milioni di abitanti al tempo della sperimentazione) e, pur nella sua allarmante autorevolezza, non si tradusse mai in alcun provvedimento operativo da parte delle amministrazioni locali o del governo centrale. Già allora come oggi, infatti, sarebbe stato essenziale mitigare il più possibile l’inquinamento atmosferico (e più in generale, la contaminazione ambientale).
Passano ancora tanti anni e, nel 2013, l’International Agency for Research on Cancer di Lione (IARC – Agenzia che, per conto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, analizza e classifica agenti e sostanze per la loro capacità di provocare il cancro) colloca formalmente nel “gruppo 1 – sicuramente cancerogeno” il cocktail di combustioni da traffico, riscaldamento, emissioni industriali. Dunque, la IARC – come massima autorità oncologica mondiale – già dal 2013 codifica ufficialmente il fatto che la contaminazione da sostanze varie che affligge l’atmosfera delle nostre città rappresenta una miscela sicuramente cancerogena per l’uomo.
Comprensori particolarmente invasi dall’inquinamento (soprattutto atmosferico) – che in essi sorpassa cronicamente la soglia di attenzione e, talora, quella di allarme – sono le vastissime aree urbane e suburbane di Los Angeles, di Città del Messico, di molte metropoli cinesi (vedi Wuhan, oltre 6 milioni di abitanti) e, purtroppo, anche della “nostra” val Padana (dati Agenzia Europea per l’Ambiente, Copenaghen). Infatti, a causa della presenza delle Alpi (le più alte montagne d’Europa) che chiudono a nord-ovest la nostra penisola, della ventosità complessivamente ridotta, delle temperature medie continentali, dall’elevata umidità atmosferica, della pressione antropica molto alta, la val Padana presenta un insieme di caratteristiche che ne fanno un comprensorio ideale per il cronico ristagnare di livelli di inquinanti letteralmente insostenibili per aria, acqua, suolo e organismi che la popolano, in primis per noi umani.
In questo senso, gioca un ruolo quanto mai negativo il cosiddetto “particolato” atmosferico. I particolati sono composti da particelle solide o liquide di dimensioni infinitesimali che si trovano più o meno temporaneamente sospese nell’aria. Le principali fonti naturali e antropiche che determinano l’immissione di particolato nell’ambiente sono moltissime: solo per citarne alcune, erosione delle rocce, incendi boschivi, cave, miniere, discariche, inceneritori, cementifici, asfalti, traffico motorizzato, usura di freni e pneumatici, gas di scarico degli aerei, fumi industriali e domestici, fonderie, acciaierie, alcune centrali elettriche, ecc. Da un punto di vista dimensionale, le particelle che compongono i particolati sono dette “grossolane” se hanno un diametro superiore ai 2,5 micrometri (1 micrometro = 1 millesimo di millimetro), laddove al di sotto di tale dimensione sono dette “fini o sottili” (fino a 100 nanometri; 1 nanometro = 1 milionesimo di millimetro), o “ultrafini” (fino a 10 nanometri), o “nanoparticelle” (fino al limite di 2 o di pochissimi nanometri).
La quantità di particolato presente in un certo volume di aria viene indicato da un indice, detto “PM” (che sta per “Particulate Matter”). I più comuni indici PM sono il PM10 e il PM2,5, i quali indicano la concentrazione totale in aria delle particelle aventi diametro rispettivamente inferiore a 10 e 2,5 micrometri. I valori di PM si esprimono correntemente in microgrammi per metrocubo di aria. Non vi sono, purtroppo, ancora indici ufficiali per le particelle ultrafini e le nanoparticelle. Tanto per dare un ordine di grandezza intuitivamente percettibile, si tenga presente che la quantità di particolato che può accumularsi annualmente in un’area inquinata è intorno alle centinaia di tonnellate ogni ettaro.
In Unione Europea e in Italia i valori-limite di PM10 e di PM2,5 sono i seguenti (D. Lgs. 155 del 13/8/2010 e Direttiva UE 2008/50/CE): per il PM10, 40 microgrammi per metrocubo da non superare come media annua nell’anno solare (o “civile”, sostanzialmente sinonimo di “solare”), e 50 microgrammi per metrocubo da non superare nell’anno solare/civile per più di 35 volte come media giornaliera. Per il PM2,5, 25 microgrammi per metrocubo da non superare nell’anno solare/civile come media annua, con l’obiettivo di non superare i 20 microgrammi per metrocubo come media annua al 1° gennaio 2020.
In questo senso, purtroppo la situazione complessiva nel nostro Paese e in modo speciale in val Padana, non è affatto tranquillizzante: il PM continua a superare spessissimo i limiti di legge, specie nella stagione invernale. Oltretutto, poco o nulla si sa sulle particelle fini, ultrafini e sulle nanoparticelle che, come detto, possono aver impatto devastante sulla nostra salute, sugli animali domestici, sulle coltivazioni, sulla natura, sugli ecosistemi, ecc. Fatto essenziale, più piccole sono le particelle, più sono in grado di penetrare a fondo nei tessuti e nelle cellule (anche dei nostri polmoni!), causando di per sé danni più o meno gravi e/o veicolando sostanze tossiche, metalli pesanti, spore, virus, batteri, e tutto quel che in generale non dovrebbe entrare facilmente all’interno del nostro corpo.
Una caratteristica rilevante di tutti in particolati, quindi, è quella di poter veicolare e poi eventualmente rilasciare molecole tossiche e/o microrganismi e/o spore e/o particelle virali, e tanto altro. Come se non bastasse, le particelle si possono anche sgretolare, moltiplicando il loro potere inquinante e veicolante. Il materiale particolato può finire nei bronchi ed eventualmente negli alveoli polmonari – oltre che nel sangue (sia nel plasma che nei globuli rossi), nelle coronarie, nel cuore, nel sistema linfatico e, in definitiva, pressoché in tutti gli organi, con conseguenze gravi o gravissime per la salute (es., azione cancerogena e/o teratogena, ecc.). Ultimo ma non ultimo, alcune particelle possono entrare nel nucleo delle cellule e bersagliare il DNA, con effetti devastanti.
Nell’ormai lontano range temporale 1997-2001, studi effettuati da ARPA Emilia- Romagna, affermavano che la mutagenicità riscontrata nel PM rappresenta “un importante fattore di rischio per la salute dei cittadini; risulta necessario, quindi, impegnare risorse nella prevenzione primaria, in particolare per gli effetti sulla salute a lungo termine, come conseguenza dell’esposizione alle polveri più fini”. Di nuovo, cosa è cambiato in circa 20 anni? Pressoché nulla, purtroppo. La storia insegna, ma non ha scolari…
Tutto considerato, dunque, siamo arrivati al punto nodale della questione: ci sono autorevoli lavori scientifici internazionali che, da molti anni, mettono in correlazione il particolato atmosferico con la diffusione di malattie degli animali e umane, anche virali. In particolare, sono le affezioni polmonari che risentono in maniera significativa del livello di contaminazione dell’atmosfera. Beninteso, non sto qui sostenendo in modo semplicistico che il deterioramento ambientale sia la causa unica della diffusione di malattie virali – nella fattispecie di virus associati alle infezioni respiratorie quali il nuovo coronavirus – ma sono molto propenso a ritenere che ne rappresenti una significativa concausa.
A questo proposito, da una disamina della autorevole letteratura scientifica presente nelle principali banche-dati mondiali, segnalo ad esempio che una importante patologia da “virus respiratorio sinciziale”, che normalmente affligge i bambini in tenera età, può assumere decorso severo e richiedere una pronta ospedalizzazione. Un autorevole gruppo di ricercatori milanesi – in una pubblicazione del 2018 che riporta come primo nome quello di Michele Carugno – testualmente scrive che “l’esposizione a fattori ambientali (ad es., inquinamento atmosferico) potrebbe influenzare il sistema immunitario e comprometterne le capacità di limitare la diffusione di agenti infettivi”, come è il caso del virus da loro studiato. E aggiungono: “l’esposizione all’inquinamento atmosferico è correlata al peggioramento delle malattie respiratorie in adulti e bambini”, similmente a quanto riportato recentemente da altri scienziati della Corea del Sud (anch’essa, com’è noto, afflitta dal nuovo coronavirus). Sempre Carugno e coautori (2018) concludono che la concentrazione di PM10 in Lombardia nelle due settimane precedenti l’ospedalizzazione era fortemente associata ad un aumentato rischio di ricovero ospedaliero per la patologia virale da loro studiata.
Ancora, da un’altra sperimentazione di livello effettuata nella Repubblica Popolare Cinese su oltre 36.000 bambini (città di Hangzhou, oltre 6 milioni di abitanti, Cina orientale), risulta una correlazione positiva tra infezione da virus respiratorio sinciziale e livelli atmosferici di PM2,5 e PM10 (entrambi pressoché sistematicamente al di sopra dei limiti imposti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità); al contrario, vi è correlazione negativa con la temperatura (Ye et al., 2016). Ciò vuol dire che temperature più alte hanno portato ad una contrazione del tasso di infezione. Particolarmente, nel contesto in cui la ricerca si è svolta, la situazione più critica si è realizzata al di sotto dei 9 °C, mentre si è registrato un deciso miglioramento con temperature dai 20 °C in su.
Nella sostanza, dunque, risultati concettualmente simili sono stati ottenuti da numerosi gruppi di ricerca operanti in diverse aree del mondo. Ci sono infatti decine di lavori sperimentali pubblicati su riviste scientifiche internazionali di alto livello in cui viene correlato significativamente il livello di inquinamento dell’aria con l’incidenza di malattie respiratorie, anche virali (solo per citare alcune referenze: Gordon et al. 2014; Liang et al. 2014; Walton et al. 2010; Xu et al. 2013). Alcuni scienziati ritengono in proposito che lo stress ossidativo generato dall’inquinamento atmosferico, e in particolare dal PM, possa avere effetti sull’efficacia della risposta immunitaria, modulando negativamente le difese antivirali del nostro organismo. In questo senso, alcuni studi supportano il fatto che l’esposizione agli inquinanti atmosferici sia in grado di: 1) ridurre la capacità dei macrofagi di fagocitare i patogeni, anche virali; 2) diminuire l’espressione o l’azione di particolari proteine protettive nei confronti delle infezioni virali (Ciencewicki & Jaspers, 2007).
Ribadisco, già prendendo in considerazione gli ormai ben noti effetti diretti dell’inquinamento atmosferico, si sarebbe dovuta invertire drasticamente la marcia già da una ventina di anni a questa parte. Invece, per ragioni disparate – e di certo non scientifiche -, chi di dovere fa orecchie da mercante.
Purtroppo, sia a Milano, sia a Wuhan, i livelli di particolato atmosferico hanno ampiamente superato negli scorsi recentissimi mesi del 2019-2020, e costantemente, i limiti di legge imposti. In proposito, le analisi preliminari di gruppi di ricerca facenti capo alle Università di Bologna e di Bari “A. Moro”, assieme alla Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA), hanno meritoriamente portato alla pubblicazione di un interessante “Position Paper” che fornisce vari spunti di riflessione sulle possibili correlazioni tra particolato atmosferico e diffusione nuovo coronavirus (SARS-CoV-2), causante la attuale malattia pandemica COVID-19. Questi studiosi hanno infatti evidenziato “una relazione tra i superamenti dei limiti di legge delle concentrazioni di PM10 registrati nel periodo 10 febbraio-29 febbraio 2020 e il numero di casi infetti da COVID-19 aggiornati al 3 Marzo 2020”. In sostanza, il particolato atmosferico potrebbe aver agito (e continuare ad agire) come vettore del coronavirus, andando ad incrementarne la diffusione.
In effetti, nel periodo del 10-29 febbraio 2020 nella sola città di Milano i valori di PM10 hanno raggiunto picchi di 70-80 microgrammi per metrocubo (limite di legge: 50 microgrammi per metrocubo), mentre nella seconda metà di gennaio si è arrivati ad almeno due picchi di circa 90 microgrammi per metrocubo. In ulteriore dettaglio, ecco i livelli di PM10 a Milano: 1. Media giornaliera mese di gennaio 2020: 67,2 microgrammi per metrocubo (valore minimo 34 e valore massimo 131) – limite giornaliero superato 23 volte. 2. Media giornaliera mese di febbraio 2020: 45,2 microgrammi per metrocubo (valore minimo 13 e valore massimo 81) – limite giornaliero superato 11 volte, e in particolare 7 volte nei 14 giorni precedenti l’inizio del rapido aumento dei contagi in Lombardia (dati Arpa Lombardia, www.arpalombardia.it). Nell’identico arco temporale di cui sopra, il PM2,5 si è attestato sui 40-50 microgrammi per metrocubo (limite di legge: 25 microgrammi per metrocubo), mentre nella seconda metà di gennaio si sono registrati 2-3 picchi fino a 70 microgrammi per metrocubo (dati Arpa Lombardia, www.arpalombardia.it). Una situazione dunque molto compromessa.
Per inciso, a Wuhan, che grosso modo ha anticipato di un mese la situazione italiana, i picchi di PM10 dal 10 al 29 gennaio 2020 hanno raggiunto anche i 120 microgrammi per metrocubo (nella seconda metà di dicembre 2019 anche 130 e oltre); nello stesso range di date di gennaio, il PM2,5 ha presentato picchi di oltre 100 microgrammi per metrocubo, in linea con quanto è avvenuto nella seconda metà di dicembre 2019. Insomma, il particolato atmosferico può rappresentare una vera e propria “linea ad alta velocità” per la diffusione dei contagi.
In conclusione, come la storia passata e recente dovrebbe insegnarci, è bene che una volta per tutte si provveda drasticamente a mitigare l’inquinamento di aria, acqua, suolo nel Paese tutto (e ovviamente a livello planetario). Le potenziali interazioni tra esposizione agli inquinanti atmosferici (non soltanto materia particolata, ma anche altri contaminanti solidi, liquidi e gassosi) e l’insorgenza di patologie (anche quelle generate da virus respiratori) vanno considerate molto seriamente da amministratori e organi di governo. Oltretutto, una politica ambientale condotta con criterio aiuterebbe anche nel contenere l’immissione nell’ambiente di metalli pesanti, arsenico, ozono, benzo[a]pirene, micro e nanoplastiche e, non ultimi, di dannosi gas-serra causanti riscaldamento globale. Non meravigliamoci dunque se il nostro Pianeta ci sta presentando un conto salato da pagare.