Se la sanità diventa merce

di Vincenzo D’Anna*

 

Apprendiamo dalla stampa che il Consiglio dei Ministri si appresta a varare una nuova legge in materia sanitaria, quella che amplia a dismisura le prestazioni sanitarie affidate alle farmacie. Sembra una buona idea e come tale viene prospettata agli utenti sulla base di un migliore e più rapido accesso ad una variegata gamma di prestazioni in ambito sanitario.

Tuttavia, a ben guardare, così non è se non in senso lato e del tutto teorico e soprattutto a discapito della qualità e dell’accuratezza delle prestazioni stesse. Men che meno il provvedimento allevierà le lunghe liste d’attesa a cui i malati sono costretti nel Belpaese nonostante la continua profusione di denaro per finanziare progetti in grado di accorciarle. Un miliardo di euro stanziati per l’anno in corso, che si esaurirà in mille rivoli finendo nelle tasche di coloro i quali quei progetti avrebbero dovuto attuarli superando la disorganizzazione degli ambulatori a gestione statale.

Quei progetti, infatti, saranno verificati e controllati dagli stessi che li gestiscono senza controlli da parte di enti terzi, onde per cui se la canteranno e se la suoneranno da soli, come spesso capita alla cosiddetta sanità pubblica. Un mondo, quest’ultimo, che, secondo i nostri governanti (di ogni colore politico), se gestito in regime di monopolio dallo Stato avrebbe una superiorità etica dei fini, una morale che nasce dal fatto che non vi sia chi realizzi un profitto, scambiando in questo modo il profitto con i profittatori.

È un vecchia e sempre valida mistificazione della verità, un pregiudizio ideologico, che in quanto tale accredita come vera la tesi che la pubblicità del servizio sanitario debba corrispondere alla gestione statale in quanto immune dal guadagno. Una cosa falsa oltre che ridicola. Falsa perché la sanità che accumula debiti li distribuisce ai contribuenti sotto forma di debito pubblico e di tasse. Ridicola perché, in altri ambiti di servizio pubblico, lo stesso Governo invoca la concorrenza e la competizione con i privati come strumento di efficienza e di risparmio.

La telefonia, le autostrade, i collegamenti marittimi, le acciaierie, la chimica, l’energia elettrica, i trasporti aerei e così via, sono i grani di un rosario che in cinquant’anni ha creato debiti pubblici e successiva svendita ai privati. Ma volendo fare un’eccezione per la cura della salute, si dovrebbe allora consentire alla rete delle strutture private accreditate, ossia in possesso di tutti i requisiti organizzativi, tecnologici, strumentali e di personale equivalenti a quelli richiesti nel comparto pubblico, di poter competere con loro nell’interesse del cittadino!! Quest’ultimo ha, per legge costituzionale, il diritto di scegliere il professionista ed il luogo in cui curarsi, eppure questa facoltà gli viene negata con un artifizio: quello di far gravare sulle strutture private accreditate dei tetti di spesa e delle tariffe da fame per limitarne gli accessi.

Nell’analogo comparto pubblico, ove ancora mancano i requisiti già accertati per il privato (!!), si paga a piè di lista (quel che costa la prestazione) a differenza del privato dove invece la tariffa è fissa e predeterminata. Il risultato è che nel comparto statale i costi sono triplicati ed è lì,  guarda caso, che si nasconde la gran parte del debito complessivo prodotto dalle Asl. Un regime di privilegio che surrettiziamente sposta i pazienti verso le strutture pubbliche, non gravate da tetti di spesa, con il risultato che la pacchia del cliente assicurato continua così come l’insipienza e la scarsa produttività di quel comparto.

Non bastasse tutto questo scempio finanziario, che costa circa 130 miliardi di euro ogni anno (la terza voce di spesa dello Stato), ecco intervenire un’altra levata d’ingegno da parte dei governanti (socialisti o liberali che si dichiarino) che dal sistema traggono soldi, clientele e voti. Si sposta presso le farmacia una serie di prestazioni sanitarie pagandole in taluni casi molto di più di quello che normalmente viene pagato a tariffa nelle strutture accreditate. Insomma: i farmacisti, che hanno avuto il presidente della FOFI (Ordine farmacisti) Andrea Mandelli vice presidente della Camera nella passata legislatura, ed oggi possono vantare un sottosegretario alla Sanità, diventano, come d’incanto, tuttologi ed onniscienti. Surrogano i cardiologi, gli analisti, i medici di base e la burocrazia sanitaria delle Aziende Sanitarie: un lucroso affare che affossa le strutture ambulatoriali accreditate, cariche di requisiti e di autorizzazioni (oltre che di personale abilitato per legge e con competenze professionali!!), per mettere in piedi una bottega che esegue sommariamente una serie di esami e di pratiche amministrative.

Ma il vero “malloppo” da spartire viene dalla cosiddetta telemedicina, sempre appaltata alle farmacie, con la quale si scialacquano appositi fondi!! Che il governo della destra fosse uguale a quelli che l’hanno preceduto lo si supponeva, che però riuscisse a fare di peggio è un amara sorpresa…

 

*già parlamentare