Articolo di Paolo Levoni sulle prospettive della Categoria (anno 2012)

Questione dell’alta vigilanza sull’Ordine dei Biologi

 

L’aspetto trattato in queste mie brevi riflessioni, è stato per lungo tempo trascurato nella sua importante valenza, ma sta oggi assumendo, alla luce di un dibattito culturale non più rinviabile e ancor di più dalla lettura del testo dell’Atto Senato n. 2935, una evidenza che non è possibile ulteriormente ignorare.

L’ordinamento della professione di biologo, viene definito nel 1967 con l’entrata in vigore della legge n. 396 che, stando al racconto di chi ne fu protagonista (un collega campano), ebbe un iter particolarmente rapido, che consentì di non fare innalzare barricate da quanti (medici e chimici) di fatto vedevano intaccata una porzione delle proprie competenze professionali, fino ad allora esercitate in regime di esclusiva.

La lettura delle competenze professionali elencate all’art. 3 della legge n. 396/67 evidenzia, a mio parere, una assoluta prevalenza di attività connesse al più generale concetto di tutela della salute e, in chiave di prevenzione, dell’ambiente di vita e di lavoro, quindi con una conseguente netta ed inequivocabile riferimento alle competenze di natura sanitaria.

Gli sbocchi lavorativi al momento dell’emanazione della legge n. 396/67 erano costituiti, in grande prevalenza anche se non in via esclusiva, dall’esecuzione di attività analitica sui liquidi biologici, più genericamente indicati nella legge istitutiva della professione come analisi biologiche.

Fu talmente evidente, fin dall’inizio dello sviluppo della professione, il confronto/scontro/emulazione con le corrispondenti attività mediche, che anche il simbolo grafico ne è testimonianza, e il contrassegno dell’Ordine (che molti colleghi orgogliosamente espongono sulle loro auto) ricorda molto da vicino quello dei vari Ordini dei professionisti sanitari. Risulta quindi comprensibile, anche alla luce degli avvenimenti successivi, come la Federazione degli Ordini dei medici, preso atto dell’impatto che il nostro ordinamento avrebbe potuto avere su una parte dell’attività medica, abbia preferito indirizzare l’alta vigilanza verso il Ministero di Grazia e Giustizia (oggi di Giustizia), anche al fine di evitare ogni possibile condivisione di competenze professionali.

A conferma di questa ipotesi, occorre peraltro ricordare come solamente con la sentenza del Consiglio di Stato n. 308/1986, venne fissato un punto fermo sulle nostre competenze e responsabilità sulle analisi biologiche.

Chiudendo quello che sembrava essere un contenzioso irrisolvibile, venne chiarito definitivamente che l’analisi eseguita sui liquidi biologici da un biologo, non differisce in alcun modo per quanto conerne il significato, da quella eseguita da un medico, poiché il dato analitico non costituisce diagnosi, ma contribuisce, insieme all’anamnesi e ad altri elementi oggettivi in possesso del medico curante, alla formulazione della diagnosi e alla prescrizione di eventuali terapie.

Fatta oggi, questa considerazione appare ovvia e, per certi versi, banale; in realtà, fu necessario un intervento del massimo livello della giustizia amministrativa per dare una definitiva ed autonoma dignità professionale alla nostra categoria, senza alcuna subordinazione.

Con questa storica sentenza veniva rigettata la pretesa dei medici di vedere riconoscere alla loro attività professionale, nella parte sovrapponibile alla nostra, un qualsiasi valore aggiunto.

Per quanto concerne la collocazione giuridica, mentre quella del medico, del farmacista e del veterinario erano classificate come professioni sanitarie già dal T.U. delle leggi sanitarie del 1934 e dal d.lgs. del Capo provvisorio dello Stato 13 settembre 1946, n. 233, solo con l’entrata in vigore della legge n. 396/67 sull’ordinamento della professione di biologo, iniziò il difficile percorso per conquistare nei fatti, il riconoscimento del ruolo nonché del successivo inquadramento della nostra professione.

Il primo riconoscimento, si fa per dire, lo ritroviamo nel D.P.R. n. 128/69 “Ordinamento interno dei servizi ospedalieri” emanato a seguito della legge n. 132/68 (cosiddetta “Riforma ospedaliera Mariotti”), nel quale biologi, chimici e fisici – per marcare negativamente la differenza con il personale medico – vengono inquadrati come : “Laureati dei ruoli speciali addetti alle attività sanitarie”.

Per uscire da questa dequalificante definizione,si dovette attendere la promulgazione della legge n. 833/1978 di “Istituzione del servizio sanitario nazionale” e del successivo D.P.R. n. 761/1979 sullo “Stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali”, con il quale vennero poste le basi dell’attuale stato giuridico. Infatti, a fronte delle richieste dell’Ordine dei medici e di tutto il sindacalismo medico, che reclamavano a gran voce l’istituzione di uno specifico “Ruolo medico”, che avrebbe dovuto ricomprendere il solo personale medico, relegando tutte le altre figure professionali in un ruolo sanitario indistinto, venne invece istituito un unico “Ruolo sanitario”, che comprendeva medici, veterinari, farmacisti, biologi, chimici, fisici e psicologi.

Fu questo il passaggio che evitò che, in tutta la successiva legislazione sanitaria, si parlasse separatamente dei medici, rispetto ed in modo riduttivo, alle restanti categorie professionali operanti nel Servizio Sanitario Nazionale.

Con il successivo d.lgs. n. 502/92 e s.m.i. “Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della L. 23 ottobre 1992, n. 421” tutte le professioni appartenenti al ruolo sanitario andarono a costituire, in modo indifferenziato, la dirigenza sanitaria del Servizio Sanitario Nazionale. Con i successivi D.P.R. n. 483/97 e n. 484/97 venne completato il percorso di recupero della nostra dignità professionale; preso atto del medesimo percorso formativo, fu riconosciuta la possibilità di direzione dei laboratori pubblici, in alternativa ai medici, nelle discipline di :

* biochimica clinica

* patologia clinica

* microbiologia e virologia

* laboratorio di genetica medica

* igiene degli alimenti e della nutrizione.

 

Il vulnus del quadro dianzi descritto risiede, oggi, nell’anomala collocazione, tra gli appartenenti al ruolo sanitario quali dirigenti sanitari, senza essere professione sanitaria.

Credo che tale contraddizione debba essere posta all’evidenza di tutti i colleghi, poiché appare con tutta evidenza un percorso incompiuto.

L’art. 8 del DDL “Delega al Governo per il riassetto della normativa in materia di sperimentazione clinica e per la riforma degli ordini delle professioni sanitarie, nonché delle disposizioni in materia sanitaria” colma questa lacuna e, per tale ragione, sono profondamente convinto dell’opportunità che il testo, approvato dalla Camera dei deputati il 28 settembre 2011, venga da noi appoggiato per la definitiva conversione in legge al Senato.

Il testo, qualora approvato, prevede – così come per tutte le altre professioni sanitarie – un’organizzazione territoriale, che pur non essendo il fulcro di questa mia nota, credo possa costituire il vero rilancio della nostra professione, per troppo tempo cenerentola ignorata nel contesto nazionale.

Il riconoscimento della nostra professione come “Professione sanitaria”, e ciò appare indispensabile chiarire, non comporta maggiori oneri per tutti i colleghi che, in possesso dell’iscrizione all’Ordine, intendano esercitare la loro attività come professionisti.

Di converso, permarrebbero i già esistenti vincoli, che prevedono il possesso della specializzazione per la dipendenza del Servizio Sanitario Nazionale e per i regimi convenzionali, mentre l’attività in strutture accreditate è variamente organizzata e normata nelle diverse regioni.

Resta comunque, ferma la necessità prevista dalla Legge 148/2011, ed in carico agli Ordini professionali, della formazione continua obbligatoria per tutti gli iscritti.

A conclusione di questa mia esposizione, a mio parere non esiste pertanto oggi, un razionale che possa attestare e quindi sostenere, come l’Alta vigilanza del Ministero della Giustizia possa produrre vantaggi per la nostra professione.

Da ultimo una considerazione che prende spunto dai dati sugli iscritti agli Ordini professionali pubblicati sul Corriere della sera del 28 febbraio 2012; a fronte di 42.137 biologi sono iscritti al relativo Ordine la “bellezza” di ben 9.966 chimici.

Anche con un numero molto più modesto del nostro Ordine, riescono ad avere una organizzazione ordinistica addirittura provinciale. Che non sia forse così vero che occorre avere bilanci stratosferici per avere una efficiente ed indispensabile organizzazione territoriale ?.

Il più grande dei limiti della gestione del nostro Ordine, com’è possibile a tutt’oggi rilevare, non credo sia stata la pur gravissima scarsa trasparenza della gestione amministrativa, quanto la più completa e incomprensibile autoemarginazione sul piano nazionale, con la conseguenza di una mancata partecipazione e presenza nella elaborazione dei processi legislativi più importanti per il futuro della nostra professione.

 

Bergamo, 5 Aprile 2012

 

Paolo Levoni